Quel che abbiamo amato di José Saramago

Irriverente, ostinato e geniale. Saramago era così. Paradossale nelle sue incredibili fantasie e crudele ma incredibilmente vero nel narrare storie di uomini. Avrebbe compiuto 100 anni questo mese se la grave malattia che da anni lo affliggeva non lo avesse portato via il 18 Giugno di 12 anni fa, nella sua casa alle Isole Canarie. Casa, peraltro, nella quale si era letteralmente dovuto rifugiare per fuggire alle ire scatenate in Portogallo dalla pubblicazione del Vangelo secondo Gesù Cristo, la sua personale riscrittura della storia evangelista da un punto di vista tutto umano.

Unico autore portoghese a vincere il premio nobel per la letteratura (8 Ottobre 1998), fu bersagliato per tutta la sua vita da accuse e polemiche per le sue convinzioni religiose e le sue prese di posizione. Non amava scendere a compromessi, combatteva per le sue opinioni, per quello in cui credeva.  Anche se lui stesso affermò, con voce di io narrante in uno dei suoi più bei libri, che “lottare è sempre stata, più o meno, una forma di cecità”, perché a volte nel nostro lottare siamo irrazionali e a volte siamo del tutto soli in quella guerra, perché non c’è quasi mai qualcuno pronto a combattere accanto a noi. Eppure lui non si è mai fermato e la sua verità, l’ha sempre raccontata.

Forse è questo che abbiamo tanto amato di lui. Le sue narrazioni insolite, bizzarre, paradossali. Completamente assurde. Eppure le abbiamo sempre accettate, abbiamo accettato il patto narrativo che ci proponeva. All’inizio forse restavamo increduli, ma pagina dopo pagina non potevamo fare a meno di crederci.

Tutte le sue storie infatti iniziano con un avvenimento sconvolgente. Un’inspiegabile epidemia di cecità (Cecità, Feltrinelli, 1995), uomini che non muoiono più (Le intermittenze della morte, Einaudi, 2005) e lo stravolgimento di una storia per colpa di un “non” introdotto da un correttore di bozze (Storia dell’assedio di Lisbona, Feltrinelli, 1989). Niente ha senso, almeno inizialmente. Ma ogni cosa lo assume di volta in volta, grazie alla sua prosa accattivante e piena di ironia e alla perfetta ricostruzione di personaggi che da paradossali diventano improvvisamente vivi.  Pieni di umanità. Nessun eroe nelle sue storie. Nessun vincitore, a volte. Soltanto uomini.

L’uomo al centro di tutto, nelle sue follie e nelle sue cattiverie, nel suo essere umano. Anche nel suo ultimo romanzo, Caino (Feltrinelli, 2009), l’uomo viene posto al centro di tutta la narrazione. Ultra criticato perché attraverso quelle pagine Saramago rivendica ancora una volta il diritto a dire la sua in materia di religione e trasforma la storia di tutti nella sua storia, realizzando un Caino che accetta il suo castigo ma insorge contro un Dio che considera crudele. 

C’è chi non ha creduto in quello che diceva e c’è chi proprio non ha potuto fare a meno di crederci. Perché in tutte le sue parole, in ogni sua frase, era racchiusa l’umanità intera. L’essere uomo anche quando sei un dio, quando sei un governatore, quando sei il capo delle forze armate. Siamo tutti uomini e siamo tutti imperfetti. Saramago non hai voluto affermare una verità, non ha mai voluto indottrinare qualcuno con le sue teorie. Ha sempre e soltanto voluto dirci che siamo tutti uguali. Il ministro della sanità sarà l’ultimo ad essere contagiato dall’epidemia, ma accadrà. E non potrà fare niente per evitarlo. Il più debole e il più forte saranno uguali prima o poi. E credo che non ci sia niente di più reale e di più magnifico, soprattutto se a narrarlo è stato uno scrittore, un drammaturgo, un poeta che ci ha dato la forza di credere anche a ciò che sembrava impossibile. La letteratura serve a questo, a sognare. E Saramago, coi suoi romanzi tradotti in oltre 25 paesi, con le sue storie impossibili, le sue cronache e le sue poesie ci ha fatto indiscutibilmente sognare per oltre 88 anni. 

Elisa Spadaro