Nell’Italia del boom industriale lo studio della musica era uno spazio aperto ancora a pochi. Essenzialmente esponenti delle classi sociali più abbienti, le cosiddette èlites borghesi, che si tenevano ben stretti – e per la gelosia di una cultura aristocratica e per l’aver assecondato il dilagarsi di una cultura di massa vuota, ipocrita e indubbiamente dannosa – gli ambienti che potevano assicurare lo sviluppo intellettuale dell’individuo. Si parla di accademie, conservatori e scuole di specializzazione.
Rimanendo nell’ambito musicale – anche se la sfera d’influenza di questa analisi, come si può benissimo intuire, può allargarsi anche verso altri campi – tutti gli astri nascenti della migliore cultura italiana, risultano quindi esponenti di un élite che ha contribuito a creare una cultura autoreferenziale, chiusa ed egoistica. Ci restano pochi di nomi di individui che nello spazio storico che divide l’immediato dopoguerra e gli anni del cosiddetto “benessere” abbiano lottato, lavorato e travagliato per una più equa concessione della cultura musicale italiana – che peraltro vanta di una tradizione ricchissima – e l’addestramento ad una visione democratica, intelligente e aperta della stessa.
Tra questi ricordiamo sicuramente Piero Farulli a 10 anni dalla sua scomparsa. Già violinista del leggendario “Quartetto italiano”, che ispirò personalità come Salvatore Accardo, Farulli si diede senza riserve alla divulgazione della musica classica negli spazi accademici, soprattutto quelli frequentati dai giovanissimi.
Nel 1967 alla Scuola Normale Superiore di Pisa, per esempio, riuscì a far entrare la musica non solo come momento di fruizione, spettacolo e intrattenimento, ma anche come pratica attiva attraverso il coro, corsi di educazione musicale e la stessa cooperazione con il quartetto in residenza. Questo, come preparazione embrionale alla fondazione, avvenuta nel 1974, di un luogo di fruizione della cultura musicale che è stato precursore della filosofia del venezuelano José Antonio Abreu, la Scuola di Musica di Fiesole che ancora oggi costituisce l’istituzione pilota dell’Italia musicale, minata da ogni parte dall’atteggiamento di insufficienza di molti politici, da vent’anni a questa parte.
Aprendo le porte della pratica attiva della musica ai giovanissimi e anche agli anziani, Farulli è stato in grado di imprimere un cambiamento radicale nella prospettiva del ruolo sociale che la musica può incarnare, nonostante i finanziamenti risibili che ha ricevuto. Dunque non più un linguaggio di un élite che si poteva permettere i costi esorbitanti dello studio musicale, ma uno strumento molto umano di democrazia e di vero interesse sociale, di cui l’organizzazione del lavoro di insieme dell’orchestra e del quartetto, diventa paradigma.
Lasciando la vita su questo terreno di perenne battaglia per la giustizia sociale e culturale che è l’Italia, Piero Farulli ha lasciato però una grande lezione di umanità e di vivo interesse per la parità culturale tra le classi sociali, una parità il cui raggiungimento è ancora allo stato embrionale, sempre insidiato dallo spirito borghese vero nemico di una genuina cultura popolare, minata oramai da decenni.