
Il filosofo tedesco del novecento Martin Heidegger scriveva che “il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo”. Con quest’espressione si vuole sottolineare l’importanza del linguaggio non solo come strumento funzionale alla comunicazione umana, ma soprattutto come elemento costitutivo proprio dell’essere umano. A una simile riflessione non possiamo rimanere indifferenti, noi che viviamo “nell’era delle comunicazioni”: non possiamo evitare di chiederci come stia cambiando il nostro modo di comunicare gli uni con gli altri.
Ma quella che qui si vuole argomentare non è una riflessione sociologica né filosofica: si vuole solo porre l’attenzione sulla crisi che la nostra lingua sta passando. Infatti come ci si può relazionare con chi ci è accanto se vengono a cadere tutte le certezze linguistiche, grammaticali e ortografiche? La comunicazione richiede cioè un comune “codice” che sia accettato dalle parti, altrimenti si rischia di arrivare all’incomunicabilità. Per questo motivo bisogna porre in evidenza la necessità di prestare attenzione a quella che è la nostra lingua, quotidianamente offesa e le cui regole troppo spesso sono ignorate.
Grande scandalo ci fu alle prove scritte di un concorso per aspiranti giudici nel quale oltre il 90% dei partecipanti fu bocciato per gravi errori ortografici e grammaticali. Tali aspiranti erano naturalmente tutti laureati, alcuni già avvocati o notai, eppure in questi si riscontrarono gravi carenze nella conoscenza della nostra lingua. Ma come si può insorgere contro questi se prima non lo si fa con i responsabili della formazione scolastica? È mai possibile che nelle università si continui a soprassedere davanti a “orrori” ortografici? Se in un Liceo Classico una professoressa valuta come sufficiente un compito di letteratura italiana con gravi errori, come si potrà pretendere che gli alunni imparino?
Ad alimentare questa grave crisi contribuiscono anche i media, che dovrebbero invece sempre servirsi di un linguaggio estremamente curato e corretto, loro che dell’informazione, e quindi della comunicazione, fanno la propria ragion d’essere. Il dilagare dei giornali gratuiti che vengono distribuiti nelle grandi città offre un esempio di “ortografia aliena”, e così anche i “big” come Repubblica, o i titoli di apertura del Tg1 non ci risparmiano brutti colpi.
L’errore più ricorrente è l’odiato “pò” scritto con l’accento, quando dovrebbe esserci un apostrofo (“un poco”, che perde l’ultima sillaba). E più in generale l’uso degli accenti è sconosciuto alla maggioranza degli italiani. Facili regole che tutti dovrebbero sapere: nessun monosillabo si accenta tranne alcune eccezioni come il “né” (con accento acuto) per essere distinto dalla particella pronominale “ne”; “sé” quando significa “se stesso”; “dà” voce del verbo avere deve essere distinto da “da” preposizione semplice; “sì” quando è risposta affermativa. Inoltre nell’era di internet basterebbero pochi secondi per controllare e, non volendosi limitare a googlare, si può sempre consultare il sito dell’Accademia della Crusca (www.accademiadellacrusca.it).
Questo problema tuttavia non è certamente una peculiarità italiana: i francesi, con la i loro accenti acuti, circonflessi, gravi e dieresi hanno assistito negli ultimi anni a un uso sempre più originale della lingua scritta. Tanto che è stato creato anche un sito, www. vatefaireconjuguer.com (“vai a farti coniugare”) dove controllare le forme corrette.
Dunque di soluzioni ce ne sono, bisogna però riscoprire quel rispetto per la nostra lingua, che vanta una tradizione che parte da Dante per arrivare ai nostri giorni, ed inoltre sono necessari un po’ (con apostrofo) di impegno e buona volontà!
Gabriela Grossi