
Gabriele d’Annunzio, chiamato anche “Vate”, è considerato uno dei maggiori autori italiani del Novecento. Il suo nome, però, non è legato solamente alla letteratura: sin da ragazzo si è interessato alle questioni politiche del nostro Paese. Certamente, le decisioni che prese devono essere contestualizzate dal punto di vista storico. Negli anni che precedettero la Grande Guerra vi era un atteggiamento generale di ottimismo e di esaltazione per la propria nazione, legato anche al Superomismo del filosofo Nietzsche. Sfruttando il mito della superiorità di Roma- e facendo ampiamente perno sulla tradizione letteraria post-rinascimentale- il Vate cercò di ammaliare le masse con la sua oratoria e con la sua immagine. Lo scopo? Eccellere come portatore di uno Stato, mettendosi per l’occasione sullo stesso dei militari. Sintomo della sua immensa dote fu l’impresa di Fiume: non contento dell’esito della guerra- e degli accordi successivi- secondo la quale l’Italia sarebbe stata “mutilata” di alcune sue parti, guidò un cospicuo gruppo di ribelli all’occupazione di Fiume. Fu osteggiato dal governo italiano e di quel periodo ci rimane un bellissimo carteggio fra d’Annunzio e Mussolini, riscoperto integralmente solo negli ultimi anni. Il Duce, che aveva cercato di nascondere parti di quelle conversazioni cartacee per paura di sfigurare davanti al suo popolo, nell’ultima edizione del volume ne esce come un uomo senza polso che non vuole davvero il bene della sua nazione, al contrario del Vate che combatte per la massa nonostante la malattia. In seguito all’impresa fiumana, i rapporti fra i due uomini rimasero sempre alquanto tesi ed asimmetrici: Mussolini prestò ingenti somme- mai restituitegli- al Vate, che per tutta risposta continuò a beffarsi della sua ingenuità fino alla fine dei suoi giorni. Nel ’37, a pochi mesi dalla sua morte, fu eletto per volontà del Duce Presidente dell’Accademia d’Italia ma non partecipò mai a nessuna riunione. I suoi buoni rapporti con il partito di Mussolini, però, non sono nemmeno di facciata: negli anni del trasformismo, seduto all’estrema destra durante una riunione degli ostruzionisti, si alzò in piedi e disse: <<Oggi so che da una parte vi sono molti morti che urlano, e dall’altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo d’intelletto, vado verso la vita!>> Il 27 marzo 1900, passò ostentatamente a occupare un posto nei banchi dell’estrema Sinistra.”
Facendo un passo indietro, nel 1909 – quando il volo aereo era solo uno sport per i più abbienti-, d’ Annunzio si precipita a Montichiari( nella provincia di Brescia) per raggiungere la sua folle impresa. Ad attenderlo ci sono moltissimi spettatori, ma anche spettatrici invaghite del suo fascino di uomo “che tutto può”. Per lui il volo diventa una passione sfrenata, un amore che lo lega al cielo ed alla velocità tanto amata da lui e suoi amici più intimi. Nella sua casa-museo sul lago di Garda è ben visibile verso l’uscita il volante di un aeroplano in cui ha trovato la morte un suo grande amico. Non che i voli, per il Vate, siano stati sempre facili ed indolori: durante un incidente viene ferito ad un occhio ed a Venezia, costretto ad una lunga convalescenza, scrive il “Notturno” aiutandosi con delle sottili striscioline di carta su cui riesce a dare sfogo alla sua grandissima arte. Scrive, nei suoi inseparabili taccuini che«l’ anima si fa azzurra e stellata» nell’ ottobre del 1917, dopo il decollo notturno verso Cattaro. Per lui, d’altronde, volare non era altro che «gettare il fegato al di là delle Alpi e andare a riprenderselo».
Morì, dopo una lunga vita piena di dissidi economici e sentimentali, di scontri e amori, di guerre familiari e riappacificazioni politiche, nel 1938 nella sua villa a Gardone. È ancora leggibile, a memoria di tutti, sull’entrata di casa la scritta “Io ho quel che ho donato”.