Dino Campana poeta barbaro in Italia. Dialettica in versi tra colori, suoni e viaggi 

L’idea fondamentale, per la comprensione intelligente di un personaggio come Campana, è quella di spogliarsi da tutti i pregiudizi inculcati – se qualcuno effettivamente ha avuto la fortuna di scontrarsi con la “forma mentis” di un autore così snobbato nei programmi liceali – durante il percorso scolastico. Per quanto la biografia di un autore – ricordiamo che la propria esistenza Campana l’ha trascorsa quasi interamente in manicomio – possa essere influente nella propria opera, si deve tener presente che le molteplici suggestioni tratte da una cultura sì frammentaria, ma vivacissima, hanno concorso a scalzare durante la storia critica della letteratura italiana qualsiasi influsso della cosiddetta “follia” del ragazzo di Marradi – si legga a tal proposito l’introduzione ai “Canti Orfici” edito da Einaudi del Martinoni  o il capitolo a lui dedicato in “Racconto di parte della letteratura italiana del Novecento” di Marcello Carlino edito da Lithos.

Ci viene facile capire, dunque, quanto una tale figura sia stata bistrattata, sia in vita che dopo la prematura morte, a partire dall’indifferenza da parte di alcuni dei “big” della vivace scena letteraria italiana del tempo, come Soffici e Papini, i quali, non dando troppo peso al manoscritto dei “Canti Orfici”, lo persero tra le loro scartoffie. Ma proprio questo testo fece la fortuna postuma del “barbaro” Dino.

“Barbaro”, aggettivo da aggiungere alla sua attività di poeta, ovvio. E non in senso spregiativo, altrettanto ovvio. Barbaro perché “diverso”; barbaro perché, anche rapportandosi con le correnti filosofiche in auge al tempo – Nietzsche in primis – riusciva a manifestare un’originalità viscerale. E proprio per il diverso rapporto che aveva con la dottrina dell’eterno ritorno e del superuomo, si pose in aperto conflitto con Gabriele D’Annunzio. Un superuomo non dominatore sull’arte e sul volgo, ma “oltreuomo” in armonia con la natura, con il tutto, proprio grazie all’elevazione concessagli dall’arte. Barbaro perché aperto a culture diversissime, come testimonia l’amore per la poesia americana – in particolare il nume tutelare Walt Whitman, di cui un gruppo di versi funge da “colophon”, in chiusa del volume dei “Canti”.

La soluzione letteraria nel suo unico volume di poesie pubblicato, scaturisce dunque da una cultura varia, accentuata dalla vita errabonda dell’autore e dai suoi viaggi, anche extraeuropei. È una soluzione che prende sfogo, pertanto, da una grande passione per l’arte totale – come la intendeva Wagner e lo stesso Nietzsche. In questo senso non mancano citazioni, talvolta direttissime ed esplicite, all’arte italiana – di cui qui Leonardo, Giotto e Michelangelo sono i “fari” più luminosi da seguire. Per intensificare questo rapporto letteratura – arte, Campana si dedica anche ad una strutturazione magistrale del metro e delle immagini ripetute, che concorrono alla creazione di echi, suggestioni coloristiche e lampi di impressionismo musicale con soluzioni davvero felici. Dunque c’è anche la musica, e qui ritorna Wagner, filosoficamente e musicalmente, il quale ci è utile per spiegare l’estetica campaniana. Il poeta intuisce che l’eterno ritorno, se costretto tra le colonne di un testo letterario, comporta irrimediabilmente un tracollo, la crisi della rappresentazione. Da qui i continui leitmotive, che frammentano, sciolgono le immagini evocate, uccidendole, per poi ricrearle immediatamente con altri colori, altri suoni.

Questa cattedrale poetica raccoglie in sé, sontuosamente, anche tradizioni poetiche di cui Campana si autoproclama diretto discendente. Primi fra tutti Dante e Rimbaud. Qui si spiega la scelta del viaggio, dell’itinerario di purificazione attraverso i luoghi mistici del mondo da lui conosciuti: Genova, Faenza, Firenze, la Pampa argentina, Bologna e gli spazi immensi dell’America del Nord. Seguendo questa filosofia progettuale nello schema di tre capitoli del volume – la “Notte” che fa da “Inferno”, la “Verna” che fa da “Purgatorio” e “Genova” da Paradiso – riconosciamo il Dante pellegrino, non tanto il poeta vate che deve comunicare le sorti dell’umanità. Campana pertanto si fa portavoce dell’incomunicabile, dello spazio mistico, occulto.

L’orfismo dunque diventa condizione fondamentale per l’espressione della crisi e della “vanitas” del poeta, ricalcando Rimbaud. Tutto ciò nell’esposizione più spregiudicata di spazi onirici, irriconoscibili nel loro espressionismo, ma condotti, in un’eterna dialettica di colori e suoni, verso la conoscenza che può avvenire solo attraverso lo sguardo lenticolare dell’artista, del poeta.

Valerio Sebastiani